domenica 1 novembre 2009

La Stampa e il processo Fava

Il comportamento di una parte della stampa nazionale, ma soprattutto di quella locale, nel periodo che va dalla morte di Giuseppe Fava - gennaio 1984 - alla sentenza definitiva della Corte d’Assise d’Appello, passata in giudicato -novembre 2003-, è contrassegnato da episodi e “scelte editoriali” che non possono essere ignorate in questo studio perché contribuiscono a connotare il contesto editoriale in cui operò la rivista I Siciliani.
    Protagonista in negativo sarà, soprattutto, il quotidiano La Sicilia che, come vedremo, in maniera subdola ha sempre cercato di mistificare la realtà dei fatti, in alcuni casi adoperando un vero e proprio depistaggio “secondo una tecnica che ricorda quasi in tutto quella dei servizi segreti” [I Siciliani, Carte False, edizione straordinaria de I SICILIANI NUOVI, giugno 1994].
    Col senno di poi e guardando a ritroso “i fatti” tutto appare più chiaro di quanto non apparisse allora.
Nella prima pagina de La Sicilia del 6 gennaio 1984, il servizio sulla morte di Fava, sotto l’unico titolo Assassinato Giuseppe Fava, è diviso in due parti: una senza firma e una firmata da Tony Zermo.
Nella prima vi è la ricostruzione dell’agguato criminale e si parla subito di “un delitto di mafia”, ma, (e non si capisce da cosa il giornalista che scrive abbia dedotto l’ipotesi) “commissionato probabilmente dai clan palermitani” [Assassinato Giuseppe Fava, La Sicilia, 6 gennaio 1984. L’articolo non è firmato].
    Nella seconda parte vi è un articolo di fondo firmato, come si è detto, da Tony Zermo, collega di Fava per numerosi anni a La Sicilia.
Scrive Zermo:
“L’hanno ucciso da mafiosi. E non è facile capire il motivo, perché lui era sì scrittore di mafia, era sì uomo libero, e battagliero, ma era soprattutto un artista. […] Non era per naturale vocazione un inquisitore della mafia, era un uomo a cui piaceva profondamente vivere[…] Si possono fare tante ipotesi sul perché è stato ucciso. Tutto lascia credere che si tratti di un agguato mafioso. Ma perché la mafia ha deciso di eliminarlo? Cosa ha fatto, cosa ha scritto che ha portato alla sua eliminazione? Forse per le sue ultime parole pronunciate nell’ultima trasmissione di Enzo Biagi?[…] Lui vedeva la mafia da artista[…]”.
    Due le considerazioni da fare in merito a questi primi articoli.
    La prima è che da subito si escluse, e non si capisce il perché, che potesse essere stata la mafia catanese a commettere l’agguato e si tirarono in ballo “clan palermitani”; la seconda è  che si cercò di ridurre il peso del lavoro di denuncia portato avanti da Fava e dalla redazione de I Siciliani .
    Scrive ancora Zermo, il 7 gennaio 1984:
“Probabilmente bisognerà cercare, si dovrà cercare in quello che ha scritto sulla sua rivista[…] E però anche in questa direzione si troverebbe poco perché lui non aveva scoperto nulla di particolarmente importante[…] Sono parole di un uomo di cultura, di un giornalista che vede la realtà con l’occhio dello scrittore civilmente impegnato: ma non sono denunce precise, non ci sono nomi e cognomi, non c’è nulla che possa far presumere un delitto per ritorsione[…] Rappresentava un pericolo non per quello che aveva scritto, ma per quello che poteva ancora dire o scrivere[…] Non è facile, comunque, capire questo delitto[…]”. 
Tony Zermo, L’ultima Violenza, in La Sicilia,  7 gennaio 1984.
Un mese dopo, il 5 febbraio 1984, nel primo anniversario della morte di Fava, Zermo dipinge il giornalista defunto come uno che “voleva fare cose grandi, ma non teneva conto né di bilanci, né delle difficoltà del mercato. Tutto sommato era un grande romantico, un ulissiade[…]” [Tony Zermo, in La Sicilia, 5 febbraio 1984].
Per quanto riguarda la presenza della mafia nel territorio catanese, il giornalista de La Sicilia afferma
“[…] non abbiamo ancora in questa parte della Sicilia orientale, autentiche manifestazioni di tipo mafioso, tranne qualche sporadico esempio, peraltro immerso ancora malgrado tutto nella più fitta oscurità (caso Santapaola, ad esempio)” [Claudio Fava, La mafia comanda a Catania, cit., pag. 87].
L’articolo di Zermo è del 6 dicembre 1984 e Santapaola era già latitante e il giudice Giovanni Falcone aveva già spiccato un mandato di cattura contro di lui per l’omicidio Dalla Chiesa. Ma neanche dopo anni e centinaia di morti ammazzati e arresti anche eccellenti Zermo ammetterà la presenza della mafia a Catania.
Il 16 luglio 1996, interrogato al processo Fava, affermerà:
“[…]La mia tesi qual è? Che a Catania mafia mafia, Cosa nostra doc non c'è. A Catania c'è la grande criminalità, grande, ma che abbia un codice d'onore, come quello di Cosa nostra palermitana no! Perché qui non esistono i Liggio, qui non esistono i Riina. Ci sono delle controfigure, dei cooptati momentanei, di grande spessore, stiamo attenti, ma non hanno un codice d'onore e una tradizione secolare[…]”.
Verbale dell'interrogatorio reso il 16 luglio 1996 consultabile all’indirizzo web: www.claudiofava.it/memoria.htm  nella sezione: “L’informazione e la mafia”.
    Ad esprimere dubbi sulla matrice mafiosa del delitto e sulla presenza di Cosa Nostra a Catania non fu solo Zermo.
    Nell’aprile 1984, I Siciliani pubblicò una parziale, ma già sufficientemente indicativa, rassegna di materiali comparsi sulla stampa italiana in relazione all'omicidio fino a gennaio 1984 molti dei quali escludono appunto la matrice mafiosa del delitto.
Alcune citazioni.
Sette Giorni: “[…]Il delitto di Fava si presenta abbastanza difficile per via del movente […] Orientarsi esclusivamente sulla pista mafiosa è un grave errore[…]”.
Il Giornale Nuovo: “[…]Il mafioso infatti non conosce l’uso della 7,65[…]” La Notte: “[…]Se è stata la mafia a uccidere il giornalista scomodo bisogna più concretamente parlare di micromafia[…]”.
Il Corriere della Sera riportò le dichiarazioni di Nino Drago, già citate nel paragrafo precedente, sull’inesistenza della collusione tra mafia e politica a Catania e ospitò un intervento dell’allora sindaco di Catania Angelo Munzone, andreottiano come Drago, che riaffermava l’inesistenza di una mafia catanese e sottolineava la differenza con Palermo: “Io, qui, vado in giro senza scorta, mentre a Palermo…[…]”.
I Siciliani, Alcune cronache su un caso di mafia, anno II, n.15 aprile 1984.
Azioni di depistaggio furono attuate dalla stampa locale anche nei confronti delle prime dichiarazioni di pentiti. Pochi mesi dopo la morte di Fava, esattamente il 18 luglio 1984, La Sicilia pubblicò un articolo a sei colonne con titolo: Un detenuto pentito della malavita catanese svelerà i nomi degli uccisori di Giuseppe Fava [L’articolo, a firma di Enzo Asciolla, è consultabile presso l’archivio de La Sicilia]. La cosa strana è che la notizia dell’interrogatorio del “pentito” da parte di un magistrato fu pubblicata prima ancora che il magistrato avesse potuto parlare con il collaborante.
Ecco la sequenza degli avvenimenti [La ricostruzione della vicenda si basa sulle informazioni contenute in Claudio Fava, La mafia comanda a Catania].
Luciano Grasso, il pentito in questione, in carcere a Belluno per una rapina, apprende dell’omicidio di Giuseppe Fava e decide di raccontare ciò che sa in merito al delitto.
 Il 17 luglio il sostituto procuratore Giuseppe Torresi parte per Belluno. Nessuno sa della volontà di collaborare da parte di Grasso, ad esclusione del procuratore aggiunto Di Natale e del procuratore generale Di Cataldo.
Quando Torresi arriva a Belluno, il diciotto mattina, la copia de La Sicilia era già arrivata nella cella di Grasso con il rischio concreto che questi, per paura, potesse cambiare idea e non mettesse a verbale le sue dichiarazioni.
L’articolo, firmato da Enzo Asciolla, amico di Di Natale, pubblicava anche la foto di Grasso, il nome del carcere dove era detenuto e l’indirizzo della sua famiglia a Catania.
Il pentito però non si intimorisce e racconta a Torresi di un giornalista de La Sicilia di Mario Ciancio, tale Salvo Barbagallo, che “gli aveva commissionato per conto di altri l’omicidio del giornalista catanese”. Egli non aveva poi commesso il delitto e, intascato l’anticipo, era scappato via. Asciolla per quello “scoop” fu denunciato alla procura della Repubblica di Catania, che però lo prosciolse con un “non luogo a procedere” in quanto la responsabilità di aver violato il segreto istruttorio fu addebitata a chi aveva dato la notizia e non al giornalista che l’aveva pubblicata.
Apparve subito chiaro, comunque, che la violazione del segreto istruttorio era finalizzata, in modo concreto e “plateale”, ad intimidire il testimone. La Sicilia ospitò ancora altri due significativi “scoop”. Il primo riguardava un presunto traffico di auto su cui Fava avrebbe condotto un’inchiesta da pubblicare su I SICILIANI. L’articolo non era firmato e la notizia non aveva nessun fondamento, come chiarirà  poi il processo. Il secondo fu un vero e proprio “depistaggio”, denunciato da I SICILIANI che nel giugno 1994 pubblicò un’ edizione straordinaria per raccontare le falsità riportate su La Sicilia.
 La ricostruzione dei fatti che seguono è frutto delle informazioni ricavate dalla lettura dell’edizione straordinaria de I Siciliani nuovi pubblicata nel giugno 1994 [Carte False fu il titolo del pezzo che all’interno dell’edizione straordinaria riassunse in 9 punti la “cronaca di un depistaggio”] e dall’intervista a Sebastiano Gulisano uno dei redattori che ne curò la realizzazione.
    La Sicilia pubblicò, nei primi giorni del giugno 1994, un articolo di Salvatore Pernice, in cui si rivelava che il pentito Maurizio Avola si era autoaccusato dell’omicidio di Giuseppe Fava e del generale Dalla Chiesa. L’intento del giornalista era quello di screditare la figura del pentito Avola, il quale, fa notare l’articolo, “[…] all’epoca […] aveva appena ventuno anni e soltanto un anno dopo venne fatto « uomo d’onore» […]”.
L’indiscrezione venne riportata da Tony Zermo sul quotidiano Il Giorno, per il quale era corrispondente da Catania. I due articoli, praticamente identici, furono smentiti, nello stesso giorno, dal sostituto procuratore Amedeo Bertone, il quale, attraverso una TV locale, affermò non solo che Avola non si era accusato dell’omicidio di Dalla Chiesa, ma anche che egli aveva già categoricamente e pubblicamente smentito la notizia davanti ad alcuni giornalisti che gli avevano chiesto informazioni in merito.

I Siciliani riporta, a questo proposito, un retroscena interessante:
“Ad incaricarsi per La Sicilia delle verifiche in Tribunale sarebbe stato, secondo quanto si è appreso, il cronista di giudiziaria Salvatore La Rocca; il quale avrebbe escluso, poi, che quelle voci andassero pubblicate. La Rocca, a questo punto, sarebbe venuto a contrasto con Zermo. E il capocronista, Domenico Tempio, lo avrebbe immediatamente "degradato", trasferendolo alle pagine provinciali[…]”.

    Il giorno 3 giugno la procura di Catania, per fugare ogni dubbio, decise di convocare una conferenza stampa durante la quale il procuratore capo Gabriele Alicata confermò che il pentito era pienamente credibile e smentì che egli avesse fatto dichiarazioni sull’omicidio Dalla Chiesa, ribadendo che le dichiarazioni di Avola riguardavano solamente l’omicidio Fava e che le stesse erano state acquisite per le indagini in corso.
 La vicenda sembrava essersi conclusa, ma La Sicilia sabato 4 giugno, a firma di Giuseppe Bonaccorso, riporterà la cronaca della conferenza con un’ulteriore inesattezza:
“[…] clamorose “falsità” attribuite al pentito sui delitti Dalla Chiesa e Fava[…]”.
Inesattezza rilevante, in quanto, come si è detto, il procuratore Alicata aveva chiaramente confermato le dichiarazioni di Avola sull’omicidio Fava.

Appare dunque chiara la volontà di creare, quanto meno, confusione su Avola, le cui dichiarazioni oltre a far luce sulla morte di Fava, saranno fondamentali per infliggere pesanti condanne alla cosca del boss Santapaola.
   
Al processo Fava testimoniò anche Mario Ciancio editore-direttore de La Sicilia.
Quando il Pm Bertone gli rivolse delle domande precise sui “depistaggi”, Ciancio rispose:
“No, non ricordo un articolo che riguardava le rivelazioni di un pentito sull'omicidio Fava. So che ci sono state polemiche… ma io non leggo la cronaca nera del mio giornale…”. Sempre in merito al processo vanno registrati due altri episodi, che riguardano, questa volta, Claudio Fava.
   
Il primo ha come protagonista Salvatore La Rocca, redattore de La Sicilia, il quale, come riferisce l’avvocato Tita, prima dell’interrogatorio di Claudio Fava:
“[…]avrebbe chiamato uno degli avvocati dell’Ercolano al quale avrebbe detto in dialetto «vieni qui che te lo dico io cosa chiedere a Claudio Fava». L’ episodio fu denunciato[…] all’ordine dei giornalisti. Le frasi furono pure confermate da una giornalista professionista presente al tribunale. L’ordine dei giornalisti comminò una sanzione perché La Rocca avrebbe danneggiato l’ordine dei giornalisti, che si era costituito parte civile, violando  la solidarietà tra colleghi prevista dal codice deontologico dell’ordine”.
La Rocca decise di querelare Claudio Fava che aveva reso pubblico l’accaduto. La querela non ebbe seguito.

    Il secondo esposto per diffamazione nei confronti di Claudio Fava fu presentato dal Dott. Antonino Longo che era stato indicato come personaggio vicino ad esponenti mafiosi catanesi. La querela non trovò seguito perché Claudio Fava ribadì che le sue affermazioni avevano fondamento basandosi su riscontri fotografici, ovvero l’album di fotografie, messo agli atti del processo, che ritraevano numerosi politici insieme a Santapaola.
   
Il quadro della “disinformazione”  si arricchisce, purtroppo, di due ultimi episodi giornalistici.
Uno è quello rilevato nel gennaio 1998 dal Manifesto a proposito di un articolo comparso su La Sicilia per ricordare la morte di G. Fava:
“Ricordare Giuseppe Fava? No, è meglio riabilitare per l’occasione i discussi «Cavalieri del lavoro» […] A 14 anni dall’omicidio per mafia del giornalista fondatore de “I Siciliani”, il quotidiano della sua città, edito dal presidente della Fieg Mario Ciancio, dedica all’evento appena 8 righe. Ma poi ospita, con un articolo a 6 colonne, un articolo su «Splendori e decadenza di una imprenditoria vanto della città» […] l’articolo, a firma del redattore di punta del quotidiano, Tony Zermo, riabilita le figure di Costanzo, Graci, Finocchiaro e Rendo”.
    L’altro riguarda  il rilievo dato sempre dal quotidiano La Sicilia alla sentenza definitiva del processo d’appello il 15 novembre 2003: un piccolo richiamo in prima pagina e poi solo 20 righe, a pagina 33, in un articolo non firmato.
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