sabato 28 novembre 2009

La mafia (93-96)

Dopo l’arresto di Totò Riina e di Giovanni Brusca si cercavano i profili dei nuovi esponenti di Cosa nostra. Venivano descritti i contorni dei nuovi equilibri della mafia e dei nuovi esponenti emergenti: l’attenzione ricadde su due personaggi, Bernardo Provenzano e Pietro Aglieri:
Provenzano, settantenne, detto (con rispetto) “u vicchiareddu”, è coetaneo di Riina, nato e cresciuto a Corleone: di lui esiste da venti anni solo una foto segnaletica e la sua figura è circondata dal “mistero” dei vecchi padrini. Aglieri, invece, è coetaneo di Brusca, 37 anni, nuova guardia metropolitana, boss di Brancaccio; lo chiamano “u signurinu” poiché è elegante ed ha frequentato l’università, lo accusano dell’omicidio del parroco di Brancaccio don Pino Puglisi; infine, Provenzano è suo padrino di battesimo. […]
E Provenzano? Come ogni “buon” padrino, avrebbe assunto il ruolo di “grande vecchio”, di “paciere”. Dopo l’arresto di Bagarella, don Bernardo sarebbe sceso in campo, con la sua autorità, per fare rappacificare Brusca con Aglieri. Riuscendoci in nome dei «comuni interessi». Quali? La Dia sintetizza così: «In attesa di tempi migliori, ognuno si cura ora gli affari di famiglia». Sul fronte politico, è nota la scelta di Provenzano.
A.Roccuzzo, Brusca e poi?, I Siciliani nuovi, Maggio 1996
Tra questi c’è un personaggio che più di ogni altro incarna le tendenze della nuova mafia: la vocazione alla mediazione politica, l’uso composto, quasi scientifico della violenza. Si chiama Pietro Aglieri, in arte u’ signurinu. E’ un giovane di trentacinque anni, di media statura, stempiato, con la piega della bocca dura e amara, lo sguardo cupo e vagamente malinconico: un po’ da impiegato ad agosto, un po’ da boia. I pentiti lo indicano come un uomo essenziale nelle parole, composto nei gesti, curato nel vestire. Elegante, persino. Per questo nel suo quartiere - il quartiere della Guadagna, uno dei più vecchi e popolari di Palermo - sin da ragazzino gli avevano dato quel soprannome, dal tono all’apparenza sfottente, che riprendeva quello del nonno paterno: un allevatore di vacche che era solito pascolare le bestie infilato in un impeccabile abito bianco. U’ signurinu, appunto. Solo che questa volta non c’era più ironia. C’era quello che da queste parti - nel gergo duro e scarno dei mafiosi - chiamano rispetto.
F.Gallina, Aglieri: ritratto di un boss, I Siciliani nuovi, Febbraio 1996
Per quanto riguarda Catania, dopo le dichiarazioni del pentito Calderone, fu confermato, anche dalle indagini della magistratura, come I Siciliani avessero individuato negli anni Ottanta alcuni dei personaggi chiave degli affari della mafia:
Al centro di Catania c’è una piazza quadrata. Da un lato il comando carabinieri del colonnello Licata: controlla gli scippatori della città, parallelamente a Santapaola. Sul secondo lato l’albergo dove ogni settimana s’incontrano i manager del narcotraffico, fra cui quelli della Famiglia Santapaola. Sul terzo lato le bische in teoria clandestine, ma in realtà frequentate da tutta la Catania bene, di proprietà dei Ferrera-Santapaola. Il quarto lato è il Palazzo di Giustizia del procuratore aggiunto Giulio Cesare Di Natale, non nemico di Santapaola. Al centro della piazza, un monumento-fontana e intorno al monumento una decina o più, secondo le sere, di tossicodipendenti. Catania era così, negli anni Ottanta.
R.Orioles, Intorno al boss, I Siciliani nuovi, Giugno 1993.
Questa era stata la definizione di Santapaola, il rapporto del boss con la città, che I Siciliani avevano dato nel gennaio del 1985:
Qualunque città avrebbe potuto produrre un Santapaola. Ma solo questa può averlo tollerato. Solo questa città può averlo reso indispensabile: perché, a Catania, Santapaola è un pezzo indispensabile del sistema di potere. In una città dove i cittadini debbono votare per i candidati “giusti”, dove gli operai debbono lavorare senza pensare ai sindacati, dove gli imprenditori devono poter godere del dovuto rispetto, dove i giornalisti possono scrivere liberamente non più che sulle previsioni del tempo, in una città del genere, come si può fare a meno di un Santapaola? Se un giorno o l’altro lo ammazzano, ne faranno uno di legno.
Dopo la cattura del capo della mafia catanese, avvenuta nel 1993, ci si interrogava sui possibili successori. Nel luglio del 1995 venne uccisa la moglie di Santapaola, Carmela Minniti [l’anno seguente sarà incriminato per questo omicidio il pentito Giuseppe Ferone]. Era un chiaro segnale del cambiamento degli equilibri criminali in città dopo l’arresto del boss. L’ipotesi più probabile era che il controllo del clan fosse passato in mano ad Aldo Ercolano, luogotenente di don Nitto:
Trentacinque anni, i lineamenti scialbi da protagonista di soap opera, un’aria maledettamente sveglia. Ercolano è stato per lungo tempo il più fedele pretoriano, l’esecutore più deciso degli ordini di don Nitto. Durante la latitanza del boss era il suo sostituto alla reggenza del clan, autorizzato a prendere decisioni, quando i motivi di sicurezza avessero impedito a Santapaola di essere presente. Già da molto tempo, da questa posizione privilegiata, Ercolano ha potuto curare soprattutto i propri interessi. Senza scrupoli, senza troppi pudori.F.Gallina, S.Gulisano, Catania: dopo Santapaola, I Siciliani nuovi, Marzo 1996

Il giornale seguì e raccontò alcune storie di usura ed estorsioni ad opera della criminalità organizzata. 
Solo che ci sono più di ventimila aziende, giù a Catania. Il 40 per cento - in un modo o nell’altro - passano attraverso il setaccio del pizzo. O dell’usura. O dell’arrembaggio mafioso. La storia del signor Castorina è la storia di centinaia di piccole imprese passate di mano, silenziosamente, dalla città alla mafia. Molti adesso si sono ribellati. C’è un’associazione, ci sono stati molti processi, alla fine s’è dovuto costituire parte civile persino il comune. Ma la guerra continua: l’arroganza dei capimafia contro un pezzo di società ribelle. Qualcuno rischia la vita, qualcun altro fa finta di non vedere.”
C.Fava, Usura: Catania dei denari, I Siciliani nuovi, Aprile 1993.
Accusò anche la cattiva gestione delle banche siciliane che negavano i prestiti ai clienti. Attraverso diverse inchieste venne svelato che paradossalmente più le banche possedevano denaro in Sicilia e meno ne davano in prestito [cfr. G.Faillaci, Strozzini in doppiopetto, I Siciliani nuovi, Marzo 1996]:
E prendiamo la Sicilcassa, la seconda banca regionale. Gli ultimi dati parlano di sofferenze per 4457 miliardi. Di questi, 1837 se li sono spartiti i quattro cavalieri catanesi ed il conte Arturo Cassina da Palermo. Gaetano Graci, da solo, s’è portato all’altro mondo debiti per 680 miliardi: poco meno del patrimonio della Cassa, che è di appena 900 miliardi. Ora non c’è dubbio che, a chiunque altro si fosse trovato esposto per molto meno e non avesse voluto o potuto pagare - come non ha pagato Graci - qualsiasi banca avrebbe prima o poi pignorato la casa. Anche al cavalier Graci, per la verità, la Sicilcassa ha preso qualche palazzo. Gliel’ha preso con molta educazione, però: pagandolo. E pagandolo, qualche volta, molto più di quel che valeva. Così, ricostruiscono adesso i giudici di Palermo, il cavaliere poteva in parte rientrare dalle scoperture più clamorose. E i suoi debiti con la banca venivano in sostanza pagati dalla banca, o più precisamente dai suoi dipendenti. Perché i soldi per comprare i palazzi arrivavano da uno speciale fondo della Sicilcassa; un fondo istituito, originariamente, per garantire la pensione ai dipendenti. […] Nell’inchiesta sul Banco di Sicilia si parla ad esempio delle condizioni di estremo favore accordate ad aziende ufficialmente sponsorizzate dai boss di Cosa nostra. Come il gruppo Aiello-Greco, di cui faceva parte la Dea Srl, una ditta direttamente garantita presso la banca dai boss di Ciaculli. Alla Sicilcassa invece la Finanza ha sequestrato quattro camion di documenti. Si indaga su un riciclaggio di denaro che i boss mafiosi avrebbero operato tramite gli sportelli dell’istituto con l’aiuto di imprenditori compiacenti. E tra le aziende passate al setaccio ci sono quelle dei cavalieri di Catania. Come al solito. […] Qualche anno fa c’era un imprenditore, Libero Grassi, che si ribellava da solo alle estorsioni. Era un cliente a rischio per le banche: ragion per cui la Sicilcassa gli prestava sì il denaro, ma a un tasso d’interesse che sfiorava il trenta per cento annuo. Ha combattuto il racket ed è finito in mano, anziché a volgari usurai, a rispettabilissimi strozzini in doppiopetto; adesso i suoi figli fanno il possibile per onorare i debiti, e rimettere su la fabbrica. I suoi figli: perché Libero Grassi, come si sa, è morto ammazzato dalla mafia. Anche i cavalieri catanesi sono morti, di morte naturale. Ma i loro debiti li stiamo ancora pagando noi.
G. Faillaci, Sicilia 1996 e io pago!, I Siciliani nuovi, Aprile 1996
Sul versante dell’antimafia l’attenzione iniziò ad essere puntata sui capitali della mafia, sulla possibilità di utilizzare i patrimoni sequestrati ai mafiosi per poterli dare all’uso pubblico. Di questa idea si fece promotore Don Luigi Ciotti tramite l’associazione Libera.
Un milione di firme. E’ questa la prima iniziativa - una petizione popolare - promossa da Libera, un movimento «contro le mafie» costituito in queste settimane da cittadini e gruppi organizzati - che operano in varie città d’Italia - che hanno deciso di «federarsi» in una «associazione di associazioni». Obiettivo della petizione: confiscare i beni ai mafiosi e ai corrotti, ed usarli per creare lavoro, servizi, vivibilità. Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele di Torino, è uno dei promotori di Libera. «Confiscare le ricchezze illecite - spiega - è strategicamente più importante che arrestare un boss. Non è un caso che Pio La Torre (il deputato comunista che per primo presentò un progetto sul sequestro dei beni ai mafiosi, poi diventato la legge Rognoni-La Torre, ndr) sia stato assassinato dalla mafia. Oggi, rispetto ai primi anni ‘80, è indispensabile fissare due punti: estendere la confisca anche alle ricchezze prodotte dalla corruzione; e facilitare la loro destinazione a usi sociali». Tecnicamente, spiega ancora Ciotti, occorre modificare una legge del 65 - la numero 575 - che impone procedure macchinose, specie nel momento in cui bisogna destinare i beni sequestrati alle attività di comuni, enti, cooperative e associazioni del volontariato. In particolare si chiede di istituire presso ogni prefettura un fondo per l’attività di risanamento delle periferie e di promozione d’impresa per giovani disoccupati, da alimentare con i beni confiscati o con proventi della vendita di immobili improduttivi e di aziende; di conferire rapidamente ai comuni, enti, associazioni di volontariato e culturali, cooperative, gli immobili confiscati; di estendere la cassa integrazione ai dipendenti delle aziende sequestrate.”
C.Nicotra, Signor Craxi quei soldi sono miei, I Siciliani nuovi, Gennaio 1995
Furono anche gli anni dell’uccisione di Don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio assassinato dalla mafia, e della continuazione delle sue idee da parte di Padre Turturro.
 E’ toccata a don Pino Puglisi, uno di quei preti che lavorano duro e in silenzio ai margini della città. Uno che dava fastidio. Uno che insegnava ai ragazzini di Brancaccio a diventare carabinieri, o maestri, o qualsiasi altra cosa purché fossero diversi dagli altri. Gli altri, gli adulti, i picciotti, quelli tutti di un pezzo: Palermo ne è ancora piena, nonostante don Pino. Nonostante quelli come lui.
Quelli come lui non vanno in televisione. Non insegnano all’università. Non discutono alle tavole rotonde. Un titolo, quelli come don Pino lo strappano solo se muoiono ammazzati. Padre Turturro lo sa bene. Perché lui e don Pino appartengono alla stessa razza cocciuta, perché non hanno mai amato parlare di speranza, perché preferiscono volare basso. «Io sto a Borgovecchio, di fronte all’Ucciardone. Di cosa vuoi che parli a questi ragazzi? Della strada parlo. E della mafia». […]  E lei, padre Turturro? Che chiesa è la sua? «Io ho inventato la chiesa della strada: parlare ai figli dei mafiosi, convincere anzitutto loro, fargli capire che la mafia è soltanto una fregatura. Il lavoro? E quando mai quelli li t’hanno dato lavoro? La casa? Ma se a Borgovecchio vivono ancora nelle baracche...». […]Da quel giorno padre Turturro ha organizzato decine di roghi. Pistole vere, armi finte, ma anche siringhe, bustine di eroina. Tutto. «Facciamo un baratto. Loro mi portano una dose e io gli regalo un pallone».”
Claudio Fava, Padre Coraggio e la sua gente, I Siciliani nuovi, Settembre 1993
Negli stessi anni si scrissero le storie dei giornalisti assassinati per mano mafiosa: si accesero i riflettori sul paese di Barcellona Pozzo di Gotto, dove venne ucciso nel 1993 Beppe Alfano, corrispondente de La Sicilia.
Trenta morti ammazzati, questo è vero, nel giro di un anno: ma son morti di mafia e a Barcellona la mafia - dice la Linea del Partito - non esiste. Dunque non esistono nemmeno quei morti e in particolare non esiste l’ultimo di questi morti, il giornalista Beppe Alfano. Che fosse un giornalista, per la verità, se ne sono accorti solo dopo che è morto e gli hanno fatto, meglio tardi che mai, il tesserino professionale alla memoria. Dalla “Sicilia” di Catania, il giornale di cui era corrispondente, prendeva cinquemila lire a pezzo, più eventualmente qualcosa per le foto; ha avuto anche una colonnina di piombo il giorno dopo che l’hanno ammazzato e alcuni articoli elogiativi - cosa che richiede una più matura riflessione - nei giorni dopo. […] «Ho chiesto alla “Sicilia” la raccolta degli articoli di Alfano - dice il giudice Olindo Canali, l’unico del paese che si ricordi ancora di lui - Mi servivano per le indagini. Li sto aspettando ancora. Finora, non me li hanno mandati».
R.Orioles, D.Russo, Una storia di carta, I Siciliani nuovi, Marzo 1993.
Si continuò a parlare dell’omidicio di Mauro Rostagno avvenuto nel 1988 a Trapani e venne riaperta l’inchiesta sull’assassinio di Peppino Impastato.
 In un articolo - Trapani: morire di normalità, Giugno 1995, Faillaci Gallina, si parla del processo Rostagno, Carlo Palermo e si disegna il profilo della “normale” città di Trapani.
“Dice: a Trapani non succede mai niente. Scivoli in macchina sulla marina, una lingua d’asfalto tra gli scogli calcarei e le case, tutte diverse ma tutte dipinte allo stesso modo, color zafferano. E pensi: chissà cosa vuol dire. Poi ti fanno vedere una vecchia foto, l’istantanea d’una macchina scassata, arrugginita, un rottame dentro il quale ormai cresce pure l’erba e ti dicono: la macchina di Carlo Palermo, la Fiat 132 dell’attentato di Pizzolungo. E’ rimasta così per anni. Non dallo sfasciacarrozze: al Palazzo di giustizia, in un angolo del cortile. Non come monumento alla barbarie, mica per ricordare l’attentato: così, perché proprio non si sapeva chi dovesse portarla via.”
 «Le dichiarazioni del pentito di mafia Salvatore Palazzolo hanno permesso la riapertura dell’inchiesta sull’omicidio di Peppino Impastato, avvenuto nel maggio del 1978. A ordinare l’esecuzione del giovane militante di Lotta Continua sarebbe stato il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti, attualmente detenuto negli Usa. Le rivelazioni di Palazzolo confermano l’ipotesi da sempre sostenuta da familiari e amici della vittima». Poche righe dell’agenzia Ansa, battute svogliatamente giovedì 29 febbraio e riprese da un solo quotidiano nazionale, “Il Manifesto”. Dopo averle lette, abbiamo fatto un piccolo esperimento. Abbiamo chiesto ad alcuni colleghi, e ad alcuni amici romani, se sapessero chi era Peppino Impastato. Soltanto uno conosceva la risposta. Ma era siciliano. Eppure quella di Peppino Impastato è una storia che andrebbe raccontata nelle scuole italiane, una storia limpida e bellissima: quella di un giovane di sinistra, intelligente e fantasioso, che si ribella alla cultura mafiosa di cui è vittima il padre, fonda la prima radio libera di Cinisi, inventa un linguaggio ironico e rivoluzionario per raccontare la mafia del suo paese. Cinisi, nei racconti di Peppino, diventa un villaggio assediato dagli indiani. E Badalamenti diventa «don Tano seduto». Un boss può a volte sopportare l’accusa di essere un mafioso, e anzi trarne prestigio. Ma non può sopportare di essere sfottuto. Peppino venne trovato dilaniato da una carica esplosiva accanto ad un binario divelto della linea Palermo-Trapani. Era lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani. I giornali titolarono: «Brigatista muore in fallito attentato». In taglio basso, nelle ultime pagine”.
Michele Gambino, Peppino e Don Tano seduto, I Siciliani nuovi, marzo 1996
  • Stumble This
  • Fav This With Technorati
  • Add To Del.icio.us
  • Digg This
  • Add To Facebook
  • Add To Yahoo

Creative Commons License
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
 
I Siciliani di Giuseppe Fava è un blog pubblicato sotto licenza Creative common
theme by Introblogger