domenica 15 novembre 2009

La giustizia (93-96)

Gli anni de I Siciliani nuovi furono quelli del passaggio da Prima a Seconda Repubblica. A cavallo di questo periodo arrivò l’accusa di associazione mafiosa per il più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti; a lui fu dedicato un intero numero monografico nell’ottobre del 1995. Un dossier sui trent’anni di mafia e politica, una guida per seguire il processo che si sarebbe svolto a breve.
L’attuale senatore a vita è stato il simbolo talvolta criticato e generalmente accettato di un intero sistema politico, perciò definito immarcescibile e invincibile. Oggi, questo personaggio-simbolo si ritrova addosso due accuse tremende formulate nei suoi confronti dalla magistratura italiana. Una come complice di Cosa nostra e l’altra come mandante dell’assassinio di Mino Pecorelli. Si tratta di due delitti politici, cioè relativi proprio all’attività svolta da Andreotti nell’esplicazione di quelle qualità che gli hanno guadagnato tanti e tali apprezzamenti. Del resto, la solidarietà politica gli ha consentito in numerose occasioni, attraverso il diniego parlamentare dell’autorizzazione a procedere, di sottrarsi al controllo dell’autorità giudiziaria ordinaria. […]Vito Ciancimino […] ha ricordato recentemente che in un comizio del 1979, nell’imminenza delle prime elezioni europee, Giulio Andreotti era sul palco insieme a lui, a Salvo Lima, che sarebbe stato eletto europarlamentare di lì a poco, e ad altri “democristiani di Sicilia” come ebbe a definirli la didascalia in calce alla tradizionale foto di gruppo.”
A.Galasso, Andreotti: prima che lo giudichino, I Siciliani nuovi, Febbraio 1995
Guai giudiziari anche per il presidente della Provincia di Palermo, l’avvocato Francesco Musotto, detenuto per associazione mafiosa.
Il signor Musotto era, contemporaneamente, un avvocato di vaglia e il presidente della Provincia di Palermo. Aveva saputo affrontare con discreta sagacia gli inconvenienti della sua carica. Prima di finire in manette, infatti, Musotto l’avvocato aveva deciso di continuare ad assistere un imputato per la strage di Capaci, e Musotto il presidente aveva coerentemente rinunciato a costituirsi parte civile nel processo. Più tardi, Musotto era riuscito a trovare un fantastico equilibrio tra le ragioni del suo mestiere e quelle della pubblica decenza: avendo la Provincia, per salvar la faccia, deciso di costituirsi e chiedere la condanna dei boss, ogni volta che Musotto il presidente si vedeva passare davanti delibere su quest’argomento, Musotto l’avvocato si alzava e andava via.”
G.Faillaci, Il partito degli avvocati, I Siciliani nuovi, Febbraio 1996
Iniziava intanto il processo per il super poliziotto Bruno Contrada, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le rivelazioni di alcuni pentiti. Contrada fu per anni a capo della Squadra Mobile di Palermo, diresse la Criminalpol della Sicilia occidentale, e fu capo di Gabinetto dell’Alto Commissario De Francesco [Alla fine del 1985, dopo un’inchiesta del settimanale I Siciliani, fu trasferito a Roma. Dopo l’inizio del processo nel 1994, l’anno seguente sarà condannato a dieci anni di carcere e tre di libertà vigilata].
Nelle pagine de I Siciliani continuavano sempre ad essere ricordati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino grazie anche alle testimonianze di Antonino Caponnetto e Carlo Palermo.
Ho rivisto Giovanni Falcone dopo la strage di Capaci, in un filmato di repertorio. Lui più giovane, con la barba ancora scura e ispida e le mani in tasca, e lo sguardo che non diceva, che non rivelava mai. Andava a compiere un rito triste, il sopralluogo per un amico ucciso. L’amico quella volta era il commissario Beppe Montana, assassinato sul molo di Porticello dai mafiosi a cui dava la caccia, in una sera di luglio palermitano (un’altra brutta estate, l’estate dell’85). Non era arrivato da solo, Falcone. Dietro di lui, in fila indiana sotto la luce livida dei riflettori, c’erano il vicequestore Ninni Cassarà e il giudice Paolo Borsellino. Nessuno di loro esibiva tensione, nessuno di loro mostrava collera. Eppure la intuivi, in quei pochi secondi di filmato, nei passi svelti e rigidi, e nelle mani in tasca che immaginavi contratte, indurite nei pugni. La rabbia dentro, solida come un macigno, solitaria come un tumore: era il prezzo di quel rigore, di quella dignità esteriore. Faceva parte del gioco. Fu quella volta che Cassarà lo disse. Lo soffiò d’un fiato a Borsellino, in un angolo del molo, e fu l’unico gesto d’impazienza che si concesse. Fu una frase breve eppure pareva - in quegli istanti, in quel luogo - un pensiero incredibilmente lungo. Disse: dobbiamo convincerci che siamo dei cadaveri che camminano. Cassarà sapeva d’essere il prossimo sulla lista. Fu lui a cadere, una settimana dopo Montana. Poi è toccata a Falcone. Poi a Borsellino”.
C. Fava, I giorni di Falcone, I Siciliani nuovi, Maggio 1994

Carlo Palermo oggi fa l’avvocato e nel processo per la strage del 23 maggio ‘92 assiste la famiglia di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti insieme al giudice e alla moglie, anch’essa magistrato. Secondo Palermo «ci sono elementi che fanno pensare che l’uccisione del giudice sia attribuibile anche ad altri apparati economici, finanziari e politici collegati alla mafia».
- Avvocato Palermo, quali sarebbero questi elementi?
«Mi riferisco, ad esempio, ad alcuni fatti accaduti nei mesi immediatamente precedenti e successivi alla strage: l’omicidio di Salvo Lima, l’intenzione di Falcone di recarsi negli Stati Uniti e le inchieste Mani pulite di Milano e Roma. Fatti apparentemente slegati l’uno dall’altro, ma che potrebbero aver causato una convergenza di interessi sfociata nella decisione di ucciderlo».”
S.Gulisano, Una strage di Stato, I Siciliani nuovi, Maggio 1995
Ormai le fortune dei cavalieri del lavoro di Catania erano lontane. Questa fu la stagione nella quale si raccolsero i frutti delle inchieste svolte sul loro conto da I Siciliani. L’impero creato dagli imprenditori catanesi, in odor di collusione, era ormai incrinato sensibilmente. Erano distanti i tempi in cui i cavalieri avevano la protezione di Craxi.
Adesso che Craxi se n’è scappato ad Hammamet con tutte le fontane di Milano, Craxi che un giorno scese in Sicilia per dire ai giudici di smetterla, che non si mandassero più in galera gli industriali perbene - gli industriali perbene quella volta si chiamavano Rendo, Costanzo e Graci - e Carlo Palermo era da poco scampato alla strage di Pizzolungo ed ecco lì il presidente del Consiglio che prendeva l’aereo per venirlo ad insultare: «ci sono magistrati che soffrono di smania di protagonismo», disse.”
G.Faillaci, F.Gallina, Carlo Palermo: “verità su Mauro”, I Siciliani nuovi, Giugno 1995
Alcune inchieste sugli affari degli imprenditori catanesi erano state svolte dal giudice Felice Lima.
Il giudice Felice Lima - uno di quei magistrati che non ti guardano in faccia se hanno da mandarti in galera - aveva appena fatto arrestare Pasquale e Giuseppe Costanzo: la solita storia di appalti truccati, di prezzi lievitati, di ospedali che dovrebbero già funzionare e che, invece, ancora non sono stati neanche costruiti. In città, in quei giorni, si parlava di altre inchieste, si aspettava l’arrivo del giudice Di Pietro, si facevano i nomi dei notabili per cui, da un momento all’altro, sarebbero potute scattare le manette. Al giudice Lima - tra parentesi - sanno tutti come sia finita: adesso sta al Tribunale civile, ad occuparsi di vertenze di condominio; e gli ispettori mandati da Martelli hanno proposto di allontanarlo dalla città per “incompatibilità ambientale””.
G.Faillaci, Affari e lavoro: il ricatto, I Siciliani nuovi, Aprile 1993
Il cavaliere Gaetano Graci fu arrestato nel luglio del 1994 con l’accusa di associazione mafiosa.
A Catania - spiega ora il magistrato che ha firmato l’arresto di Graci, il dottor Antonino Ferrara - questo sistema delle imprese funzionava semplicissimamente: «Nitto Santapaola risolveva tutti “i problemi” che nell’esercizio della sua attività il Graci incontrava». Se qualcuno, ad esempio, provava a fargli un’estorsione, c’era un’altissima probabilità che costui finisse prima o poi sparato. Le questioni sindacali si risolvevano ordinariamente con le minacce; e tra i problemi da far trattare a don Nitto era messa in conto anche la stampa «che dava un’immagine del clan e degli imprenditori non proprio esaltante». Per la stampa, spiega ancora il dottor Ferrara, la mafia aveva un’attenzione particolare. C’era pure, nel gruppo Santapaola, qualcosa di simile ad un apposito pool (gli Ercolano) incaricato «della “sorveglianza” sulla stampa locale, volta a evitare che venissero pubblicati articoli sgraditi all’organizzazione».”
G.Faillaci, F.Gallina, I giorni del Termidoro, I Siciliani nuovi, Agosto 1994
Il cavaliere Finocchiaro ammise solo allora di aver pagato delle tangenti per alcuni suoi affari. Invece per il cavaliere Costanzo non si profilava più una collusione mafiosa per “stato di necessità” .
Ha pagato i politici, Finocchiaro: e ora spiega d’averlo fatto perché, altrimenti, non avrebbe mai eseguito i “suoi” lavori; perché, altrimenti, sarebbe stato escluso da tutte le gare, avrebbe dovuto chiudere bottega e trasferirsi altrove. Ha pagato Tignino e la sua giunta, ha pagato i più importanti gerarchi della politica locale. E a sentir lui, sembrerebbe che l’abbia fatto per puro spirito filantropico, giusto per non lasciare le maestranze con le mani in mano e senza salario. «Tutti i miei guadagni se ne andavano così - ha spiegato il cavaliere - a Catania, noi, eravamo costretti a lavorare per i politici».
Adesso Finocchiaro racconta di tangenti miliardarie. Racconta di politici rapaci e insaziabili, che ogni volta che l’incontravano gli chiedevano soldi. Adesso Finocchiaro si presenta come una vittima del sistema. Ma undici anni fa, lui, il sistema degli appalti lo descriveva in un altro modo. Con quell’intervista sul “Corriere della sera”, per esempio: due pagine comparse nella primavera dell’82 in cui tra l’altro si raccontava d’una riunione con gli altri cavalieri, negli uffici di Mario Rendo: «Nel settembre scorso ci siamo incontrati con i Costanzo, con i Rendo e con i Graci. E abbiamo stabilito un patto di ferro. Lasciamo ai piccoli le opere di uno o due miliardi, così possono crescere anche loro o almeno vivere. Al resto pensiamo noi».”
G.Faillaci, S.Gulisano, Francesco l’africano, I Siciliani nuovi, Giugno 1993

L’impresa Costanzo, fin dai primi anni Settanta, «per esercitare la propria attività e acquisire nuovi appalti, si è avvalsa non soltanto dei tradizionali fattori della produzione, ossia il capitale e il lavoro, ma anche di un ulteriore elemento: la forza di intimidazione e di assoggettamento promanante da alcuni autorevoli esponenti mafiosi». A queste conclusioni è giunto Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore generale della Repubblica presso il Tribunale di Catania, ribaltando la tesi dello «stato di necessità» prospettata dal giudice istruttore Luigi Russo, nel procedimento a carico della “famiglia” catanese di “Cosa nostra” capeggiata da Nitto Santapaola. Il processo è quello scaturito dalle dichiarazioni di Antonino Calderone, il pentito che ha raccontato al giudice Giovanni Falcone tutto ciò che sapeva sui traffici della mafia e sui rapporti tra i principali esponenti di Cosa nostra e i cavalieri del lavoro di Catania; in particolare su Carmelo e Pasquale Costanzo (detto Gino) e su Gaetano Graci. Per Russo, Graci e i Costanzo avrebbero agito in «stato di necessità», costretti dai clan, ai quali non si poteva dire di no, poiché tale scelta sarebbe stata «sempre e comunque perdente». Tutt’al più, i Costanzo - sostiene il giudice istruttore - possono essersi macchiati di numerosi reati di favoreggiamento personale, che però sarebbero estinti per effetto dell’amnistia. Adesso, dopo tre anni da quella sentenza, c’è un magistrato catanese, procuratore presso la corte d’Appello, che ribalta quel teorema: Giuseppe Gennaro sostiene che la tesi dello stato di necessità «non appare condivisibile»; l’analisi del materiale probatorio, da parte di Russo, inoltre, sarebbe sintetica e per larga approssimazione riassuntiva» e, perciò, sfocerebbe in una «interpretazione originale» degli atti processuali. Il sostituto procuratore generale ritiene invece che i fratelli Costanzo siano colpevoli di concorso in associazione per delinquere semplice e di tipo mafioso e, quindi, chiede il rinvio a giudizio e «le conseguenziali statuizioni relative allo status libertatis» - cioè l’arresto - di Pasquale Costanzo (il cavalier Carmelo è morto nell’aprile del ‘90). Gennaro, nelle cinquanta pagine di motivi d’appello, ricorda i «rapporti del tutto sorprendenti ed inimmaginabili» tra l’imprenditore e «mafiosi di altissimo rango criminale» come Totò Riina, Francesco Madonia, Salvatore Greco “Cicchiteddu”, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina, Antonio Minore, Luigi Saitta, Giuseppe Calderone e Nitto Santapaola
(gli ultimi tre si sono susseguiti, nell’arco di un ventennio, nella “protezione” dei Costanzo); ricostruisce ventisette episodi nei quali si racconta di contributi in denaro, favori, battute di caccia, subappalti, assunzioni di mafiosi, riunioni, offerte di spumante e panettoni ai detenuti del carcere di Piazza Lanza, battesimi, cresime e matrimoni, e persino di un omicidio. Alla luce di tali fatti, il rapporto tra i Costanzo e vari esponenti di Cosa nostra appare determinato da tutto fuorché da costrizione: i costruttori catanesi, sostiene il magistrato, «hanno strumentalizzato l’organizzazione criminale» per perseguire i loro fini imprenditoriali; inoltre, hanno contribuito in maniera «rilevante e consapevole» a « mantenere in vita» e far crescere Cosa nostra in cambio di “vantaggi”, il più rilevante dei quali è «il “visto d’ingresso” per lavorare in province come Trapani e Palermo, precluse all’imprenditoria sana».”
S.Gulisano, “Arrestate Costanzo”, I Siciliani nuovi, Marzo 1994.
Per il voto di scambio vennero arrestati esponenti di spicco della politica siciliana: Rino Nicolosi, Calogero Mannino, Salvo Andò e Raffaele Lombardo.
In una inchiesta del 1996 si riprese l’idea di Giuseppe Fava nel fotografare le dieci persone più potenti della regione: nella nuova rivisitazione dell’inchiesta, svolta a tredici anni di distanza, ritroviamo ancora Mario Ciancio, mentre tra i nuovi volti ecco il ragioniere Giuseppe Firrarello, l’arcivescovo Bommarito e il professore Umberto Scapagnini.
Bommarito è riuscito, negli anni, a trasformare e ingentilire la propria immagine al punto da essere citato, quasi quotidianamente, come simbolo dell’impegno antimafia. E dire che all’inizio per l’antimafia Bommarito non dimostrava gran simpatia. Aveva avvertito - poco dopo il suo arrivo a Catania, nell’88 - che «bisogna stare attenti alle leggi: sono dannose quelle dettate dall’emotività, che finiscono per intralciare l’imprenditoria siciliana». Il riferimento era alla legge La Torre, approvata all’indomani dell’omicidio del segretario regionale del Pci. Da buon pastore di anime ha sempre avuto un occhio di riguardo per i peccatori: Costanzo inaugura un supermercato? L’arcivescovo lo benedice. Graci apre un’altra filiale della sua banca? Il nastro lo taglia Bommarito. Qualcuno se la prende coi cavalieri? Il monsignore tuona contro «la retorica dell’antimafia». Fino al punto da provocare la reazione dei giudici catanesi: «Mi sorprende che qualcuno dal suo nobilissimo pulpito dica che l’antimafia sollevi polveroni», gli ha ribattuto il magistrato Giuseppe Gennaro, oggi al Csm. Fino ad un titolo di poche settimane fa, offerto dal quotidiano La Sicilia: «Bommarito ha incontrato Santapaola». Si trattava della visita ai detenuti che l’arcivescovo compie ogni anno e che questa volta aveva arricchito con un incontro particolare, quello con Nitto Santapaola e i suoi due figli, benevolmente riuniti per l’occasione insieme nonostante l’isolamento al quale sono sottoposti”.
S.Gulisano, E.Fusto, Il lungo viaggio del potere, I Siciliani nuovi, Febbraio 1996.

Eurodeputato del Biscione, farmacologo di fama internazionale, il professor Umberto Scapagnini ha molte buone ragioni per apparire continuamente in televisione. Ed appare con una frequenza che rasenta l’ubiquità: facendo un po’ di zapping lo si può trovare, contemporaneamente, nel salotto del Costanzo show e tra gli ospiti della trasmissione di Lorenza Foschini, Misteri, su Rai 2. Il bello della differita, naturalmente. Cinquantatré anni, amico personale di Berlusconi, Scapagnini non è alla prima esperienza politica: per tre anni - dall’85 all’88 - è stato il fiore all’occhiello del Psi di Salvo Andò nel consiglio comunale di Catania, dove ha ricoperto le cariche di vicesindaco e di assessore all’urbanistica, e ha convissuto senza accorgersi di nulla con un drappello di consiglieri e assessori del Garofano che intascavano mazzette a più non posso”.
Ibidem.
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