lunedì 28 dicembre 2009

La mafia in Sicilia all'inizio degli anni Ottanta


Il periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta fu definito come la stagione di mafia più cruenta. Furono uccisi esponenti di qualsiasi grado delle istituzioni. L’avviso era chiaro: nessuno doveva mettersi in mezzo. Nel giro di pochi anni vennero colpiti giudici (Cesare Terranova 1979, Gaetano Costa 1980 e Rocco Chinnici 1983), politici di primissimo piano come Piersanti Mattarella, democristiano, appena nominato presidente della Regione Sicilia e Pio La Torre, 1982, segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.

“Sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato” [La Repubblica, 10 agosto 1982]. Queste erano state le parole del nuovo prefetto di Palermo, il generale dalla Chiesa, spedito in Sicilia a combattere la mafia dopo essere stato determinante nella lotta al terrorismo. “Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza” rispondeva dalla Chiesa alle domande dell’inviato Giorgio Bocca di Repubblica. Il generale era fiducioso che quei “poteri speciali” di coordinamento nazionale potessero arrivare presto. Non arrivarono mai. E lui circa un mese dopo morì, in una delle stragi mafiose sfortunatamente famose e ancora ricordate dall’opinione pubblica italiana.

Carlo Alberto dalla Chiesa era già stato in Sicilia tra il 1966 e il 1973, anni in cui era venuto a conoscenza della mafia agricola, alla guida della quale vi era Luciano Liggio. Una mafia, che tornato in Sicilia gli sembrava profondamente cambiata:

Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E’ finita la mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?

Dalla Chiesa accennava ai quattro cavalieri del lavoro catanesi Costanzo, Graci, Rendo e Finocchiaro, ricchissimi imprenditori in odor di collusione con la mafia. Seguiva questa pista il prefetto di Palermo che doveva combattere la mafia, attestava che la geografia di Cosa nostra stava cambiando, che aveva annesso la città di Catania, dove indisturbati e impuniti facevano affari politici, imprenditori, mafiosi, ai margini dei quali una parte della magistratura non svolgeva il proprio compito. Voleva poteri speciali dalla Chiesa, anche per scendere a fondo nei conti di quelle imprese che costruivano grandi opere in tutta la Sicilia, avide come pescecani, non lasciando nessun appalto libero dalla loro gestione.

La mafia stava cambiando: più potente grazie agli accordi politici, ricchissima dopo essere diventata gestrice mondiale del traffico di droga e con nuove prospettive di allargamento e nuovi strumenti come il riciclaggio e la gestione degli appalti. E puntava sempre più in alto, con la necessità primaria di tessere rapporti con la finanza internazionale e con la politica mondiale. Continuava dalla Chiesa:

La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.

Dalla Chiesa fu ucciso il 3 settembre del 1982, dopo appena cento giorni dall’inizio del suo mandato, in viale Isidoro Carini a Palermo. Fu accusato della strage il boss catanese Benedetto Santapaola che già aveva cominciato la latitanza nel giugno dello stesso anno, incriminato per la strage della circonvallazione di Palermo, dove Alfio Ferlito, capo-mafia catanese nemico dei Santapaola, e tre carabinieri addetti alla scorta vennero barbaramente uccisi [Ancora sull’intervista di Bocca a dalla Chiesa, rilasciata a La Repubblica].

“Scusi la curiosità, generale – chiede Giorgio Bocca – Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell’agguato sull’autostrada, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell’assessore ai lavori pubblici di Catania?” “Si”, rispose dalla Chiesa”.

Eppure, qualche mese prima, Santapaola continuava a regnare indisturbato a Catania. Ci sono due istantanee di quella Catania di inizio anni Ottanta; quella città dove il potere politico, il potere economico e il potere mafioso lavoravano in perfetta armonia, coesistendo serenamente, scambiandosi cortesie vicendevolmente. La prima è una foto in cui il prefetto etneo Abatelli rende omaggio con la sua presenza all’inaugurazione del nuovo salone automobilistico di Santapaola. La seconda foto fu scattata all’inaugurazione del negozio di abbigliamento del boss mafioso Rosario Romeo, “ritratto con Santapaola, il sindaco di Catania Salvatore Coco, il presidente della Provincia Giacomo Sciuto, il deputato regionale socialdemocratico Salvatore Lo Turco, il segretario provinciale del Psdi Antonello Longo, il dirigente del servizio sanitario della casa circondariale di Catania Franco Guarnera, il medico chirurgo Raimondo Bordonaro, poi arrestato per traffico di droga e armi, il consigliere comunale Salvatore Di Stefano, i due nipoti del cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo – Giuseppe e Vincenzo – e il genero del cavaliere del lavoro Gaetano Graci, Placido Filippo Aiello” [N. dalla Chiesa, Storie, p.9]. Storia ormai, di una città in cui non era necessario cercarsi le verità tanto erano lampanti. La mafia era lì, impunita, a stringere accordi e protezioni. Eppure non se ne faceva parola.
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