martedì 29 dicembre 2009

Giornalista in Sicilia, un mestiere difficile


“La Sicilia è la regione d’Europa con la più densa storia di giornalismo militante e civile: ben otto giornalisti sono stati uccisi qui nell’esercizio del loro mestiere. Contemporaneamente, la Sicilia è la regione in cui l’informazione ufficiale è meno pluralista e articolata: da ben prima di Berlusconi, qui, i media sono soggetti a un monopolio (Ciancio e soci) sempre più pervasivo e assoluto”.
Riccardo Orioles

Tra il 1960 e il 1993 in Sicilia sono stati uccisi otto giornalisti nell’esercizio del proprio lavoro. Otto uomini, otto storie cittadine e di provincia, di professionisti assassinati, sequestrati, alcuni “suicidati” per inganno. È la storia di un’altra stampa in Sicilia, una scuola di un grande giornalismo antimafia e d’inchiesta. Uomini caduti nella quotidiana lotta al sistema mafioso, giornalisti militanti che, assumendosi le proprie responsabilità, vedevano nell’esercizio della professione un unico scopo, politico e sociale, incrinare il sistema mafioso, per rendere possibile un cambiamento culturale, per svegliare le coscienze assopite, per uscire da una subalternità secolare.

Tutti i giornalisti uccisi si sono contraddistinti per le loro inchieste sui poteri mafiosi; inchieste che difficilmente avevano spazio nell’informazione ufficiale. Due giornali principalmente, L’Ora e I Siciliani, ospitavano questi servizi giornalistici; dopo il 1996 nessuna di queste due testate è riuscita a sopravvivere nel panorama editoriale siciliano. Dietro ogni morto lo stesso meccanismo: la delegittimazione, i depistaggi, le calunnie. Solo dopo decenni è stato possibile accertare alcune responsabilità, sebbene per alcuni di questi morti ancora non si conoscano i mandanti e gli esecutori. “Una coincidenza? O la dimostrazione di trovarsi in una regione, in uno Stato a democrazia limitata, dove la libertà di informazione è stata sempre mal tollerata?” [Luciano Mirone, Gli insabbiati, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 7]

Cosimo Cristina
Corrispondente da Termini Imerese (PA) del quotidiano palermitano L’Ora. Collaboratore dell’Ansa, del Corriere della Sera e del Giorno. Cinque mesi prima della morte aveva fondato e diretto, insieme al collega Giovanni Capuzzo, il periodico Prospettive Siciliane. Con questo editoriale aveva inaugurato il nuovo giornale:
“Con spirito di assoluta obiettività, in piena indipendenza da partiti e uomini politici, ci proponiamo di trattare e discutere tutti i problemi interessanti la nostra Isola, avendo come nostro motto: “Senza peli sulla lingua”. E poiché riteniamo che premessa indispensabile per ogni opera di rinnovamento sia la moralizzazione, denunzieremo quindi ogni violazione ai principi di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza” [Prospettive siciliane, dicembre 1959 cit. in L. Mirone, Gli insabbiati].
Dalle colonne del nuovo periodico Cristina aveva riaperto il caso Tripi, l’uccisione nel 1957 di un personaggio della malavita di Termini Imerese, e aveva scoperto importanti retroscena riguardo sia al suddetto delitto che sui collegamenti ad una serie di omicidi avvenuti nella stessa zona. Cristina fu ritrovato morto il 5 maggio del 1960 lungo i binari della ferrovia. Il caso venne archiviato dai magistrati come suicidio. Non venne ordinata un’autopsia e non gli venne celebrato il funerale. Anni dopo il questore Mangano riaprì le indagini sostenendo la tesi dell’omicidio di mafia.

Mauro De Mauro
Uno dei più importanti giornalisti d’inchiesta de L’Ora e tra i più bravi cronisti d’investigazione della storia del giornalismo italiano. Giornalista poliedrico: scrive di cronaca giudiziaria, di cronaca nera, di società e nell’ultimo periodo anche di sport. Insieme a Felice Chilanti scrive il “Rapporto sulla Mafia” del 1963. Nel 1967 invece firma “Tutti gli uomini della droga”, inchiesta d’impianto investigativo. Il 16 settembre del 1970 viene sequestrato. Il suo corpo non sarà più ritrovato. De Mauro era considerato uno che sapeva troppo; prima di essere rapito stava lavorando ad alcune inchieste importanti, ed in questi lavori andava ricercato il movente della sua morte. Le piste più battute furono quelle relative al traffico di droga e quelle riguardanti il lavoro di ricostruzione degli ultimi giorni di Enrico Mattei in Sicilia (commissionatogli dal regista Francesco Rosi). Nel 2005 il tribunale di Palermo chiuse l’inchiesta, risolvendo così anche un mistero durato 35 anni. L’uccisione di De Mauro fu commissionata dal clan dei corleonesi poiché il giornalista era venuto a conoscenza dei sostegni armati che la mafia aveva offerto a Borghese, ex comandante della X-Mas, per il suo progetto di colpo di Stato.

Giovanni Spampinato
Giornalista corrispondente da Ragusa per L’Ora, fondò L’Opposizione di sinistra, un quindicinale che nasceva come “strumento di informazione, o di controinformazione, indispensabile dato l’assoluto, incontrastato monopolio a livello locale della stampa borghese mistificatrice, asservita a precisi interessi di classe e di gruppi di potere” [L’Opposizione di Sinistra, 1969 cit. in L. Mirone, Gli insabbiati].
Fu uno dei primi giornalisti a scoprire l’esistenza di “Gladio”, l’intreccio di neofascismo e servizi segreti che aveva il fine di evitare l’ingresso del PCI nel governo italiano. Attraverso inchieste sulla mafia ragusana e varie indagini sui referenti siciliani di Borghese, Spampinato era venuto a conoscenza della presenza a Ragusa di Stefano Dalle Chiaie, uno degli artefici della “strategia della tensione”. Venne ucciso nel 1972 dal figlio di un magistrato di Ragusa, vicino ad ambienti neofascisti e coinvolto nell’omicidio di un antiquario.

Peppino Impastato
Da Radio Aut, una radio privata creata con i ragazzi del paese, denunciava le collusioni tra politica e mafia attraverso gli attacchi a Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, organizzatore del traffico d’armi e droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti. Fu trovato morto il 9 maggio 1978, smembrato dall’esplosivo, lungo i binari che collegano Palermo a Trapani. Per tanti anni esso fu ritenuto un suicidio, essendosi sparsa la voce che era rimasto vittima dell’attentato terroristico che lui stesso stava costruendo. In seguito arrivò l’attestazione che si era trattato di un omicidio di mafia.

Mario Francese
Cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, ucciso da Leoluca Bagarella nel gennaio del 1979. Nato in provincia di Siracusa, comincia, fin dagli inizi della propria carriera, a seguire i processi di mafia celebrati a Palermo. Diventa un grandissimo conoscitore della mafia palermitana, assistendo alle udienze più importanti: la strage di viale Lazio, il delitto Tandoj, le udienze di Luciano Liggio. La vicinanza con la città e la frequentazione dei quartieri popolari permettono al giornalista di costruirsi una fitta rete di informatori che lo aiuteranno a capire perfettamente gli interessi economici della mafia degli anni Settanta.
Nel 1968, dopo il terremoto del Belice, i soldi stanziati dal governo per la ricostruzione diventarono un affare per la mafia; l’odore di tutti quei miliardi scatenarono una violenta guerra tra i clan per l’accaparramento degli appalti. Era iniziato un terremoto interno alla mafia, che causava una forte tensione tra vecchie e nuove generazioni. Approfondendo tra i misteri dei finanziamenti per la ricostruzione del Belice (che riguardava tre province: Trapani, Palermo e Agrigento), Francese scoprì che alla base del forte scontro interno mafioso c’erano soprattutto i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia (alcuni terreni erano dei cugini Salvo, legati al democristiano Salvo Lima [Cfr. L. Mirone, Gli insabbiati, p. 158]). Ricorda Felice Cavallaro: “Gli articoli di Mario finivano per porsi in antitesi con quei personaggi come i cugini Salvo e lo stesso Lima verso i quali il Giornale di Sicilia ha sempre avuto un reverenziale rispetto” [Felice Cavallaro, interv. in L. Mirone, Gli insabbiati, p. 159]. Dal 4 al 21 settembre 1977, Francese pubblica una clamorosa inchiesta in sei puntate in cui, ripercorrendo la guerra di mafia, scrive degli interessi, delle collusioni e delle corruzioni dietro l’affare della diga. In quella occasione Mario Francese fu il primo a fare il nome di Totò Riina e delle società ad esso collegate che parteciparono alla gara di appalti.

Mauro Rostagno
Sociologo. Era stato anima del sessantotto e uno dei padri di Lotta continua. Trasferitosi in Sicilia per fondare una comunità di recupero per tossicodipendenti, era diventato il direttore di RTC, una televisione privata di Trapani. Raccontava in una lettera indirizzata ad un amico:
“Ho cominciato a mandare le telecamere tra la gente, farla parlare, ho fatto un gran casino sull’acqua (che manca ed è inquinata), sulla monnezza (città sporche, i traffici loschi della nettezza urbana), sulle case popolari, sulle scuole antigieniche e carenti, sui palazzi di giustizia lasciati deserti dai sostituti procuratori, soprattutto sulla sanità pubblica. Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania, ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono. Sociologicamente si chiama “primato dell’esistenza sul teorico”: e già questo a Trapani è profondamente antimafioso”.
Rostagno fu ucciso in circostanze ancora misteriose alle porte di Trapani, il 26 settembre del 1988. Sconosciuti i nomi degli assassini e dei mandanti.

Beppe Alfano
Giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), corrispondente de La Sicilia. Conduceva la trasmissione “Filo diretto”, per l’emittente Telenews (dell’editore Antonio Mazza, ucciso pochi mesi dopo Alfano), programma basato sugli interventi telefonici degli ascoltatori, dove gli amministratori erano chiamati a rispondere. Aveva scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza dove avevano messo le mani insieme politici e mafiosi. Fu ucciso nel gennaio del 1993.

A questo elenco manca Giuseppe Fava, ucciso nel gennaio del 1984, a cui sono dedicati molti post in questo blog.

Bavagghiu in siciliano vuol dire bavaglio. È la metafora che utilizza il giornalista Riccardo Orioles per titolare un pezzo scritto nell’aprile del 1995 su I Siciliani nuovi a proposito del rapporto tra i giornalisti uccisi e gli organi collettivi siciliani che li tutelavano:
“La Sicilia fra tutte le regioni d’Italia è quella che ha dato il più gran numero di giornalisti uccisi nel compimento del proprio dovere. I giornalisti hanno, a loro tutela: un sindacato unitario, che è la Fnsi, un Ordine professionale, un direttore di testata che, loro collega, dovrebbe in linea di massima proteggere i loro interessi contro chiunque. Dei giornalisti uccisi, Peppino Impastato (1978) non ebbe alcuna tutela in quanto non iscritto all’Ordine; molti colleghi si esercitarono liberamente a dargli del terrorista. Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, fu ucciso mentre indagava su una questione di mafia; ma i proprietari del suo giornale, in un’intervista, misero in dubbio la matrice mafiosa della sua morte, senza reazioni apprezzabili da parte dei colleghi. Al funerale di Giuseppe Fava, nel 1984, sindacato e Ordine nazionale dei giornalisti furono assenti. Lo stesso per Mauro Rostagno, con la motivazione che non era regolarmente iscritto all’Ordine.
Non era regolarmente iscritto neanche Giuseppe Alfano, solitario corrispondente de La Sicilia da Barcellona, ucciso dai mafiosi; lo iscrissero alla memoria dopo la morte, concedendogli finalmente di diventare un giornalista «vero». Il giudice che indagava sul suo assassinio dovette sudar sette camicie per farsi dare, dal suo giornale, gli articoli che gli servivano per indagare; poté averli solo minacciando il ricorso a mezzi legali. E così via. Tutto questo per dire che, se la storia dei giornalisti siciliani è spesso - individualmente - una storia gloriosa, non lo è altrettanto quella dei loro organi collettivi e dei loro giornali”.
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